Esplorando la penisola di San Cataldo all’insegna della Cittadinanza Attiva

Articolo di Roberto Gristina

Fotografie di Roberta Giordano

Evento organizzato dall’Associazione L.U.C.A. (Libera Università Cittadinanza Attiva)

Il succo della bellissima gita, alla scoperta di come il concetto di cittadinanza attiva possa dare dei frutti nella città di Bari, lo abbiamo trovato, seduti sui muretti del lungomare e accarezzati dal rosa delle nuvole al tramonto sopra un mare placido che circonda la penisola di San Cataldo, nelle parole di Terry Marinuzzi, la gentile signora bionda che ci ha accompagnati: “Ho una grande vocazione alla politica ma non al potere”.

Di fronte avevamo un rudere di un Centro Sportivo abbandonato, nato come copertura di traffici illeciti. Ci ricordava che di lavoro da fare ce n’è ancora moltissimo, ma la camminata che stava per terminare ci aveva mostrato nettamente, con dolcezza e decisione, che la vocazione alla politica di tanti cittadini fa miracoli, riduce le stupide differenze sociali e porta a vincere battaglie che cambiano la vita.

La passeggiata era cominciata due ore e mezza prima, sempre al mare, dopo essere entrati nell’unico C.U.S. (Centro Universitario Sportivo) di tutta Italia che dà direttamente sul mare. Con le sue due piscine, il palazzetto, la pista e campo di atletica é il C.U.S. più grande in Italia per la dimensione degli impianti. Dal centro di una rosa di venti composta da piastrelle blu e verdi ci siamo trovati al centro di una foresta di alberi e tiranti di barche a vela. L’inizio è intriso di benessere e natura.

Poco prima di inoltrarci nella penisola Terry ci avverte che percorreremo una strada che non è stata snaturata dai tanti palazzi moderni successivi agli anni ’90. La via è ancora originale, ma purtroppo caratterizzata dalla presenza di ruderi.

Terry ci dice di prepararci ad attraversare lo specchio di Alice, la porta che ci conduce al centro della rinascita del quartiere.

E quali altri mezzi più idonei per una rinascita dalle radici forti e durature della Scuola e della Biblioteca?

Entriamo nella Biblioteca Marconi. Pulita, perfetta, inaugurata 2 settimane fa.

La Biblioteca fa parte della rete Colibrì, la rete delle biblioteche pubbliche di Bari, come ci ricorda una grande stampa che si mostra da un muro del corridoio. Sale linde illuminate da neon al massimo della loro potenza. Terry apre le persiane e veniamo precipitati in un giardino verdissimo con muri affrescati: é il giardino della scuola Marconi.

Sembrava che la scuola dovesse essere chiusa qualche anno fa, ora invece arrivano iscrizioni anche da altri quartieri!

Mentre Terry ci parla delle sue lotte in questo quartiere, per uscire da un trentennio di degrado sociale, da una finestra si affaccia Michele, il secondo protagonista della giornata.

Ci porta ad un piano superiore e si scopre il superman che ha dato il nome al quartiere: Guglielmo Marconi!

Il generosissimo Michele ci parla del padre del Wi Fi e del perché ci ha cambiato la vita. Con gesti magici toglie teli poggiati su tavoli ed un vero museo di “Modernariato” si mostra ai nostri occhi: radio, giradischi, macchine da ripresa!!! Il tutto circondato da fotografie e manifesti appesi alle pareti. Michele non smetterebbe mai di raccontare, di regalarci la sua passione di radioamatore, di ripercorrere vita e opere del suo eroe, soprattutto il perché Bari é collegata al nome di Marconi: il collegamento per aere tra San Cataldo e il quartiere Antivari a Bar in Montenegro.

Il tempo passa, Terry ci vuole portare al centro della penisola, per mostrarci come, per questi cittadini, non esista una piazza di aggregazione. C’era un albero della cuccagna, ora c’è un palazzo algido, senz’anima. Vanni ne approfitta per leggerci storie di pirati, tipiche dei posti di mare.

Ci dirigiamo verso il lungomare lì dove é cominciato questo modesto racconto. Le ultime parole che dice Terry non dobbiamo scordarle mai: “La scuola é la base di tutto, e bisogna lavorare sulla scuola mettendo al centro le famiglie”.

Gli ultimi graffi rosati del tramonto ci accompagnano al buio della sera….

Un po’ più in la, sempre a San Cataldo, incontriamo il set di una serie televisiva famosa. Anche grazie alla cinematografia Bari è al centro dell’attenzione nazionale, solo lo sforzo congiunto di tutti ci può permettere di passare dalla fiction ad una realtà senza disparità, degrado e malavita.

LA PACE SEMPRE

Articolo di Antonio Garofalo

Qualche mese fa in una delle tante iniziative cittadine, una ragazza di scuola superiore, mi disse: “La pace più che raccontarla, bisogna farla”. Frase netta, di candida attualità, infinitamente vera. Ma anche pensiero di schietta semplicità, messaggio e dovere, a cui i giovani richiamano noi adulti, iniziando proprio da chi si occupa di cittadinanza attiva.

È nata così questa intervista al dott. Vito Luca Micunco coordinatore del Comitato per la Pace di Terra di Bari. Mai come ora questa, “esigenza universale”, quella della pace appunto, diviene assillo e pungolo per chiunque si ponga come obiettivo, la “cooperazione e la solidarietà tra i popoli”, più che le guerre.  

Dott. Micunco qual è brevemente la storia della associazione Comitato per la Pace di cui sei coordinatore?

Come in altre città, anche qui a Bari è attivo un comitato per la pace il cui scopo principale è quello di rendere permanente un impegno di animazione sui temi della pace e della nonviolenza.

Il comitato di Bari si è costituito nel 2017 su iniziativa di oltre 40 tra gruppi, movimenti, associazioni, organizzazioni sindacali e comunità religiose e si pone in ideale continuità con una lunga tradizione di lotte che in questo territorio si sono caratterizzate soprattutto in senso antimilitarista.

A livello locale, infatti, il movimento pacifista nasce già nei primi anni 60 con le lotte contro la presenza dei missili Jupiter sull’Alta Murgia, cresce per tutti gli anni 70 con le lotte contro i poligoni di tiro militare, che sulla Murgia avevano preso il posto dei missili dopo che gli stessi erano stati smantellati, e culmina negli anni 80 con le lotte, ormai estese all’intera regione, contro un processo di militarizzazione sempre più intenso che faceva della Puglia una delle aree più militarizzate del paese.

Indubbio il valore politico della pace, ma in cosa quella che si chiede in Ucraina è più significativa, rispetto alle tante guerre che affliggono il nostro pianeta?

La guerra in Ucraina è parte di quella che, con intuizione profetica, papa Francesco ha chiamato terza guerra mondiale a pezzi.

Ma rispetto alle altre 50 guerre attualmente in corso, la guerra in Ucraina assume una rilevanza particolare perché non rappresenta semplicemente una guerra di carattere regionale ma una vera e propria guerra globale che coinvolge (sia pure indirettamente) tutti i paesi occidentali, con il rischio (tutt’altro che remoto) che il conflitto possa allargarsi anche ad altri paesi e divenire uno scontro diretto tra NATO e Russia, e dunque trasformarsi in una guerra nucleare.

C’è una pace “giusta” oppure “unica”?

È certamente vero che non c’è pace senza giustizia (l’ingiustizia è sempre la causa di ogni guerra).

Ma la sola giustizia non basta.

In primo luogo, perché c’è sempre il pericolo che si tratti di una giustizia unilaterale.

E in secondo luogo perché la giustizia è chiamata a creare le condizioni per una pace che sia duratura, obiettivo per il quale un criterio più valido sembra essere quello del bene comune, anzi del bene comune universale, ovvero di un bene che non è neanche nella disponibilità – in maniera esclusiva – delle parti in conflitto.

Cosa ne pensi sulla probabile costituzione di un partito “sulla pace”?

Per rispondere a questa domanda forse vale la pena ripercorrere le tappe principali del movimento contro la guerra in Ucraina.

In questi 19 mesi di mobilitazione il movimento ha attraversato almeno tre fasi, ognuna delle quali rispetto alla precedente si è caratterizzata per una migliore comprensione del senso e della portata di quanto sta accadendo e per una maggiore consapevolezza di cosa si possa e si debba fare per la pace.

C’è stata così una prima fase in cui il movimento si è limitato ad esprimere la propria solidarietà al popolo ucraino e a dare voce ad una generica volontà di pace del popolo italiano.

Ad essa è seguita una seconda fase, che è culminata con la grande manifestazione nazionale di Roma del 5 novembre dello scorso anno, in cui il movimento si è schierato incondizionatamente contro la guerra, chiedendo l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di un negoziato per la pace.

Infine, si è avuta una terza fase (l’attuale) che di fatto vede la convergenza di tutto il movimento su una posizione di netta contrarietà all’invio delle armi, segno evidente che ciò che fin dall’inizio era chiaro a pochi, oggi è chiaro a tutti: siamo dentro una guerra che nessuno ha davvero voluto impedire e che nessuno ha davvero intenzione di fermare.

Si prospetta infatti una guerra di lunga durata che si protrarrà forse ancora per anni con pesantissime conseguenze in termini di vite umane, di devastazione ambientale, di carestia alimentare, di peggioramento delle condizioni di vita di milioni e milioni di persone.

Insomma, una catastrofe economica e sociale di proporzioni inaudite!

A farne le spese, oltre alle popolazioni direttamente coinvolte nel conflitto, saranno i paesi più poveri del pianeta e, nei paesi del ricco occidente, la parte più debole e vulnerabile della popolazione.

Di questo i cittadini italiani sono ormai consapevoli.

Forse allora è giunto il momento di aprire una quarta fase in grado di offrire uno sbocco politico al movimento.

Uno sbocco che dia una rappresentanza politica alla volontà di pace del popolo italiano e che imponga la guerra come la questione principale, la questione da cui ogni altra questione dipende e senza la quale ogni altra iniziativa in favore di un miglioramento delle attuali condizioni di vita e di lavoro verrebbe fatalmente vanificata.

In questa prospettiva abbiamo davanti due appuntamenti da non mancare: il rinnovo del decreto di invio degli aiuti militari a Kiev e le prossime elezioni europee.

Un’ultima domanda, essendo nella vostra denominazione associativa “…terra di Bari”, quali obiettivi e programmi dovrebbe provare a realizzare il prossimo sindaco della nostra città? Hai a mente chi potrebbe essere (un nome) quello ideale?

Le istituzioni locali, a prescindere dal loro colore politico, hanno il dovere di dare voce alla volontà di pace delle comunità che esse rappresentano.

È dunque fondamentale che anche il tema della pace riesca a trovare un proprio spazio all’interno dei diversi programmi elettorali, non solo con innocue dichiarazioni di principio ma con impegni concreti e vincolanti.

Per la nostra città tali impegni dovranno essere indirizzati in due direzioni fondamentali: verso l’interno con politiche efficaci per l’accoglienza e integrazione dei migranti e verso l’esterno con politiche per la promozione di scambi culturali e commerciali con i paesi del Vicino Oriente e della costa sud del Mediterraneo.

Ringrazio il dott. Micunco per aver dedicato una parte del suo tempo a sensibilizzare e far comprendere a noi tutti il valore di quel “bene comune”, a cui per nessuna ragione al mondo possiamo rinunciare.

Quindi, raccontare e soprattutto fare la pace, sempre.

Festa della Repubblica a BARI

Articolo di Antonio Garofalo

C’è sempre un modo di raccontare e insegnare alle giovani generazioni  la memoria del passato, senza dimenticare di ascoltarli su cosa hanno loro da dirci, magari  proprio su quell’idea di libertà che accomuna l’Italia, l’Europa, il mondo intero, oggi più che mai.

Lo spunto lo ha dato quanto è stato realizzato a Bari,  giovedì 1 giugno u.s. con la riuscitissima manifestazione “La Festa della Repubblica che ripudia la guerra”, svoltasi nel Parco 2 giugno della nostra città.

Alcune scuole di Bari insieme ad Associazioni di cittadinanza attiva hanno voluto con-dividere e manifestare, senza “retorica” la Festa della Repubblica. Promotore e ideatore della giornata ben organizzata il prof. Lucio Dabbicco, membro del Comitato della Pace della Terra i Bari.

In sintesi, quanto ha detto per presentare l’evento:

Credo fermamente che bisogna investire nei giovani, nonostante tutto quello che si possa dire in negativo e con preoccupazione della giovane generazione corrente (cosa che, tra l’altro, si è sempre detto delle giovani generazioni…): bisogna solleticare la loro curiosità e lanciare semi positivi nei loro cuori, sapendo “entrare nei loro linguaggi” (come mi insegnava un maestro). In ciò il coinvolgimento delle scuole risulta strategico perché la scuola può inquadrare una esperienza estemporanea come questa dentro un percorso educativo-didattico di senso”.

Il 2 giugno del ’46 si sarebbero avverati, dopo la sofferenza della guerra mondiale, i sogni e gli ideali di una comunità: scegliere democraticamente tra repubblica o monarchia, tornare a votare per un’assemblea costituente  e soprattutto dar vita a un “nuovo Stato” .

È per questo che in tanti hanno preso parte a tale iniziativa: far emergere quel patrimonio universale di parole che non sono solo segni scritti sulle pagine di una “Carta” seppur fondamentale (la Costituzione) o un semplice dire di “darsi delle regole”, ma riconoscere soprattutto, essere partecipi, del valore che ha la vita di qualunque cittadina o cittadino, proprio quando siamo a difronte alle difficoltà. E queste ultime, verrebbe da dire, ineluttabilmente sono universali.

Come è stato universale, a conclusione dell’evento, quel pensiero,  nel cerchio formato dalle ragazze e dai ragazzi delle scuole presenti sul prato, con al centro la più bella ed emblematica frase-invito-azione costituzionale del “ripudio alla guerra”.  Un monito per noi adulti: basta a insanguinare questo pianeta, cerchiamo tutti insieme soluzioni senza armi.

Abbiamo detto all’inizio che la nostra legge principale si basa sulla libertà, quella conquistata dopo una lotta di liberazione contro gli oppressori (nazifascisti). Ecco perché è opportuno concludere che oggi, quanto ottenuto a caro prezzo umanitario, sarebbe vano se non riuscissimo a pensare e tenerci accanto un’altra chiara e autentica idea generata dalla Costituzione: la Pace.

Stesso ideale che ieri ha unito dandoci una lezione e oggi ci divide nonostante quel “ripudio” che accomuna tutti fraternamente e, appunto, costituzionalmente.   

Queste le scuole e associazioni che hanno animato i diversi “momenti partecipanti”.

Per.I.P.L.O.LATERZA 2A
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
LATERZA 2C
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
MARGHERITA (15+16 stud. Scuola sec. di I gr)
Gruppo Soci e Socie Banca Etica Bari BATFIORE 2F
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
AMALDI 2B
(19 stud. Liceo)
Gruppo EMERGENCY BariMICHELANGELO (18 stud. Scuola sec. di I gr)SALVEMINI, 4G (27 stud. Liceo)SALVEMINI 3AE (19 stud. Liceo)LATERZA 2B
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
L.U.C.A (Libera Università di Cittadinanza Attiva)FIORE 2D
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
AMALDI 2A
(22 stud. Liceo)
G.E.P.SALVEMINI, 4G (27 stud. Liceo)MICHELANGELO
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
LATERZA 2B
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
SALVEMINI 3AE (19 stud. Liceo)
Coop. Soc. Progetto Città ONLUSGRIMALDI-LOMBARDI 2^ (Scuola Primaria)LATERZA 2B
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
LATERZA 2C
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
MARGHERITA (15+16 stud. Scuola sec. di I gr)
Comunità Bahà’ì
di Bari
SALVEMINI 3AE (19 stud. Liceo)MICHELANGELO
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
SALVEMINI, 4G (27 stud. Liceo)
Squola senza confini – Penny Wirton Bari OdVLATERZA 2B
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
LATERZA 2A
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
FIORE 2F
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
LATERZA 2C
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
Convochiamoci per BariFIORE 2F
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) SALVEMINI 3AE (19 stud. Liceo)MARGHERITA (15+16 stud. Scuola sec. di I gr)SALVEMINI, 4G (27 stud. Liceo)AMALDI 3B
(17 stud. Liceo)
Artists for Rojana                            AMALDI 1C
(18 stud. Liceo)
FIORE 2D
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
AMALDI 2B
(19 stud. Liceo)
Associazione “La giusta causa”AMALDI 2A
(22 stud. Liceo)
FIORE 2D
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
AMALDI 1C
(18 stud. Liceo)
MICHELANGELO
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
Eugema ONLUSLATERZA 2C
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
AMALDI 2B
(19 stud. Liceo)
LATERZA 2A
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
FIORE 2F
(24 stud. Scuola sec. di I gr)
RESS (Ricerche Educative e Studi Sociali)MARGHERITA (15+16 stud. Scuola sec. di I gr)AMALDI 2A
(22 stud. Liceo)
AMALDI 3B
(17 stud. Liceo)
AMALDI 1C
(18 stud. Liceo)
LibertiamociAMALDI 3B
(17 stud. Liceo)
AMALDI 1C
(18 stud. Liceo)
AMALDI 2A
(22 stud. Liceo)
FIORE 2D
(18 stud. Scuola sec. di I gr)
CGILAMALDI 2B
(19 stud. Liceo)
AMALDI 3B
(17 stud. Liceo)

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: E’ UN BENE PER IL PAESE?

a cura di: Luciano Mininni

Caro Vanni,

comincio col farti le mie congratulazioni per la serata organizzata dalla tua Associazione, lunedì 20 presso la sede dell’U.A.A.R.. Una serata con la presenza di due relatori che, senza fronzoli, hanno ben chiarito i contenuti dello sgangherato disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata.

 Non che avessi una opinione diversa, per quello che avevo sin qui letto sui contenuti della riforma Calderoli, ma le incongruenze di carattere costituzionale, ben rappresentate dai relatori della serata, sono di una tale evidente grossolanità da convincermi ancor di più sulla necessità di respingere l’ennesimo tentativo di dividere il Paese con diseguaglianze a tutto svantaggio del Sud.

Troppe e troppo importanti le materie (23) oggetto della richiesta della Regione Veneto di assumerle con competenza legislativa regionale ignorando e/o sottacendo i contenuti dell’art. 5 tra i principi fondamentali  della Carta sulla natura della Repubblica, una e indivisibile.

Se questa  richiesta veneta trovasse accoglimento, senza la dovuta preliminare ed inscindibile individuazione dei LEP e, soprattutto delle modalità di finanziamento degli stessi (ad invarianza finanziaria) rifuggendo dalla trappola che, in assenza della loro determinazione,  nell’arco di un anno, si tornerebbe (ignorando persino la clausola di supremazia dell’interesse nazionale)  al criterio della spesa storica col quale da troppo  tempo si finanzia la spesa delle Regioni (per cui quelle più ricche al Nord, continuerebbero a ricevere sempre di più rispetto a quelle più povere presenti al Sud).

Non vado oltre, perché già solo questo aspetto se replicato in tutte le Regioni ci porterebbe rapidamente al collasso istituzionale: potendosi registrare venti diversi percorsi normativi in materie come la sanità, l’istruzione, i trasporti, l’alimentazione, la protezione civile, la ricerca scientifica etc.etc.. Il Paese ne uscirebbe sgretolato, con la possibile costituzione (lo scrivo sorridendoci con amarezza) di due nuove realtà geografiche e politiche: la Padania e la Terronia !!!

Le recenti elezioni regionali in Lombardia e in Lazio e la deprimente affluenza alle urne sono un campanello  d’allarme della sempre più scarsa fiducia della popolazione nel ruolo di questi organi di governo del territorio.

Di altro allora ci sarebbe bisogno: l’Europa lo ha detto chiaro e tondo quando ha ritenuto con il PNRR di attribuirci una valanga di risorse destinate a colmare una volta per sempre, adesso  o mai più, il divario storico tra NORD e MEZZOGIORNO. Che vuol dire mettere tutte le Regioni su un piede di parità infrastrutturale prima della individuazione dei LEP e quindi non possiamo che opporci al disegno Calderoli, firmando quella proposta di legge di iniziativa popolare anche on line, come suggerivi, collegandosi al sito web www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Un abbraccio

Luciano MININNI

LEGGI L’ARTICOLO DI ANTONIO GAROFALO

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: E’ UN BENE PER IL PAESE?

a cura di: Antonio Garofalo
fotografia Roberta Giordano

Il varo dell’autonomia differenziata avvenuto lo scorso primo febbraio, con il decreto-legge approvato dal Consiglio dei ministri (su proposta del ministro Roberto Calderoli), è cosa fatta. Nel pieno silenzio del Parlamento.

Quale coscienza critica, civile, politica, sociale e quanto la forza dei partiti, dei sindacati, delle associazioni di categoria e dei cittadini contrari a tale riforma, potrà tenere unito il Paese per respingere quella che è definita come la “secessione dei ricchi” o un “progetto fumoso” contro l’identità territoriale?

Il motivo di un incontro sull’autonomia differenziata, tra i tanti, sta tutto nel provare a dare almeno qualche risposta a uno di questi interrogativi.

È quanto è stato realizzato ieri sera, nell’incontro pubblico, dal titolo “Autonomia differenziata: è un bene per il paese?”.

Evento promosso dalla Scuola di formazione alla cittadinanza attiva Libertiamoci, con l’adesione delle altre associazioni: “Periplo”, “L.U.C.A.” (Libera Università Cittadinanza Attiva), “Comitato della pace di Bari”, “Officine della Legalità”, “Anchenoi movimento di cittadinanza attiva”.

Dott. Antonio Garofalo

I relatori, prof. Nicola Colaianni (giurista, costituzionalista) e il dott. Lino Patruno (giornalista, saggista, docente). La diversa “estrazione” culturale di entrambi giuridica del primo e storica del secondo (peraltro autore di un libro, pubblicato recentemente “Imparate dal Sud” Ed. Magenes), ha creato le basi per poter dare ai diversi fili tematici la giusta e corretta collocazione dell’argomento.

Il tema infatti non è squisitamente politico, ma giuridico, sociale, economico, geografico e altro.

Prof. Nicola Colaianni

Il prof. Colaianni ha sottolineato, nella parte introduttiva del suo intervento, di come l’autonomia differenziata di per sé non è una lacerazione per il Paese, anzi. Fu prevista dagli stessi costituenti, per le due isole e le regioni di confine con consistenti minoranze linguistiche.
La riforma del 2001 (del Titolo V della Costituzione) ha previsto la possibilità di estenderla anche alle Regioni ordinarie previa intesa con lo
Stato
. Ma “nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. Cioè l’istituzione di un “fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante” e la destinazione di “risorse aggiuntive” per interventi speciali. È evidente che se le Regioni non sono allineate sul nastro di partenza, quanto a spesa pro capite e a numero di prestazioni per diritti sociali, il rafforzamento dell’autonomia di alcune di esse non farebbe che aumentare il divario già esistente. Il regionalismo differenziato non potrà mai ridurre le diseguaglianze, perché renderà le Regioni del Centro-Sud — che avranno sempre meno risorse per riqualificare i loro servizi — clienti dei servizi prodotti dalle Regioni del Nord” (Report Gimbe). Ciò vale non soltanto per la sanità. Non a caso i costituenti avevano previsto contributi speciali “particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le isole”. Ma la norma fu cancellata dalla riforma del 2001, anche se poi reintrodotta l’anno scorso, con un’altra modifica costituzionale a favore delle isole ma non pure del Mezzogiorno. Per evitare una sterile contrapposizione Nord-Sud, tuttavia, va rilevato che ogni Regione estranea all’intesa rischia di essere danneggiata, nello stesso Nord, e comunque va tutelato l’interesse nazionale.

Dott. Lino Patruno

Il Dott. Lino Patruno, citando il suo recente libro “Imparate dal Sud, lezione di sviluppo all’Italia” ha detto che il Mezzogiorno è conosciuto per i soliti luoghi comuni Sud piagnone, poco produttivo, palla al piede, gente pigra, poco attiva, non interessata al progresso e all’integrazione col resto del Paese. Il nuovo governo dice che il Sud è in testa ai suoi progetti, ma poi approva l’autonomia differenziata per le tre Regioni più ricche del Paese che accentuerebbe in maniera definitiva il divario.

E invece, a suo avviso il Sud al quale fare giustizia è quello con un livello di servizi e di infrastrutture al pari del resto del Paese. Un Sud per il quale finora è stata violata la Costituzione secondo cui non deve esserci differenza di trattamento a seconda di dove nasci. Il Sud deve poter ripartire a parità di condizioni. Solo allora si potrebbe giudicarlo. Ma non si può iniziare sempre la partita da zero a due come finora.

“Fare il più col meno” Perché il Sud riesce a fare il più col meno. Riesce “nonostante tutto”. Il mio libro (chiede scusa per l’autocitazione) è un sorprendente viaggio in un Sud che non si conosce perché finora raccontato con pregiudizio. Bisogna imparare da questo Sud come si faccia senza i mezzi a disposizione degli altri. E figuriamoci se questi mezzi li avesse come gli spettano. Il Sud farebbe diventare l’Italia una Francia o una Germania.

È ciò che non si riesce a comprendere. Un esempio anche per parlare nel merito dell’autonomia differenziata e in particolare dei “paletti” che dovrebbero contenerla, i cosiddetti l.e.p. (livelli essenziali di prestazioni).

È stata nominata una commissione di “tecnici” (professori universitari, economisti, esperti ambientali, ecc.) per individuarli. Sarebbe stato invece più corretto definire senza nessun dubbio i l.u.p. ossia i livelli uniformi delle prestazioni, per far allineare tutti i territori alla stessa situazione. E invece così infine, si arriverà a creare i l.i.p. ovvero i livelli inutili di prestazioni.

Dott. Maurizio Moscara

Questi in sintesi gli interventi dei relatori ai quali è seguito un dibattito, più che interessante da parte dei partecipanti presenti. Si cita in particolare l’intervento del Dott. Moscara di Periplo, il quale ha sottolineato in modo preoccupato che se per i cittadini, soprattutto quelli del sud sarà sicuramente una riforma negativa in termini di uguaglianza, ancor più grave sarà per chi come gli immigrati chiede al nostro Stato accoglienza e integrazione soprattutto attraverso condizioni di vita e lavoro migliorative.

Ha concluso l’incontro l’intervento il Dott. Vanni De Giosa della Libera Università di Cittadinanza Attiva (L.U.C.A.) augurandosi che in nome dei diritti civili e sociali che tale riforma cerca in ultima analisi di cambiare, nel modo peraltro più iniquo, l’opinione pubblica e associativa, le cittadine e i cittadini tutti possano trovare slancio per opporsi e dar voce a un sentimento di interesse e unità nazionale.

È stato ricordato inoltre che qualcosa per opporci possiamo fare anche noi. Firmando un’apposita proposta di legge di iniziativa popolare (si può farlo anche online con lo Spid collegandosi al sito web (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Su tale sito curato dal prof. Massimo Villone costituzionalista sono precisati motivi e approfondimenti del perché l’autonomia differenziata così come pensata, appunto non è un bene per il nostro Paese.

LEGGI L’ARTICOLO DI LUCIANO MININNI

GUERRE E GENTI DIMENTICATE

Donatella Albergo

Prendo spunto da questo link segnalato da Antonio (https://www.guerrenelmondo.it/?page=static1258218333) , circa le guerre tuttora in atto nel mondo, per esprimere alcune considerazioni che letteralmente mi bruciano dentro e che non posso trattenere, anche se penso che potrei facilmente essere fraintesa.

Riflettevo sulla disparità di emozioni nella gente e di attenzione dei media fra le varie guerre, vittime e profughi. Tutta la mia partecipazione alla sofferenza del popolo ucraino e la condanna per l’invasore, ma non posso che indignarmi per il silenzio su altre vittime e altre guerre. Non solo silenzio, ma anche respingimento, rifiuto, indifferenza. Otto anni di guerra in Yemen, un paese fra i più poveri al mondo e con bambini che, se sopravvissuti alle bombe, muoiono di fame. Undici anni di guerra in Siria, guerra civile dove un dittatore più canaglia di Putin usa armi chimiche contro il suo stesso popolo. Settant’anni di guerra e occupazione in Palestina, paese scomparso dalle carte geografiche ecc ecc. Non parliamo poi dell’Africa e dei bambini-soldato africani… Il resto lo leggiamo dal link di Antonio…

Per questi bambini, dove sono i riflettori, le telecamere, gli inviati sul campo, gli aiuti e l’accoglienza? Perché l’Europa e l’Italia lasciavano morire in mare bambini e donne incinte provenienti dal cuore dell’Africa? Perché l’Europa si girava dall’altra parte e non poteva ospitare un certo tipo di profughi, anzi pagava stati aguzzini perché li tenessero in lager, lontano dai nostri nasi sensibili, alle porte dei nostri paesi? Perché sulle rotte balcaniche si alzano muri e si fanno morire nella neve gli afgani in fuga dai talebani? Perché per l’Ucraina si parla del diritto di autodeterminazione dei popoli e questo non vale per la Palestina? Dove sta guardando il mondo? Immagino con rabbia come staranno sghignazzando dittatori come per esempio Bashar al-Assad in Siria, per questo momento in cui tutti i riflettori sono rivolti all’Ucraina e hanno mano libera sulla loro terra e sui loro concittadini. E quanti altri Bashar sono ignorati o dimenticati nel mondo, liberi di fare i macellai nel silenzio dei media.

Questi sono più europei, li sentiamo più vicini a noi, ci appartengono di più e siamo più emotivamente coinvolti? Mi sono chiesta: forse è l’attenzione mediatica concentrata sull’Ucraina che ci fa sentire quella terra più martoriata e quei popoli più disperati di altri. Ma nemmeno questa può essere la risposta perché ci sono stati anni in cui i nostri tg erano strabordanti di barconi sull’orlo dell’affondamento perché strapieni di vite umane, bare nei porti di primo approdo, il Mediterraneo ridotto a un cimitero, mani artigliate che nell’acqua cercavano inutilmente un appiglio galleggiante, morti stipati sottocoperta peggio di bestiame, avvelenati per le esalazioni dei tubi di scarico, donne che hanno partorito su barconi, senza nemmeno il diritto al silenzio del privato. Ma gli italiani erano distratti, l’Europa ci rimandava indietro quei disperati o alzava muri ed entrambi sbattevano loro porte in faccia. Eppure la fame uccide come le bombe, anzi più lentamente e crudelmente.

Forse è la paura del nucleare o una guerra troppo vicina che ci fa sentire così buoni in questa attenzione ad intermittenza e solo verso alcuni popoli? Beh, per me non funziona così. Un bambino è un bambino. Un vecchio è un vecchio e una donna incinta ha la stessa cosa nella pancia. Se negli ecosistemi un battito di farfalla da una parte del mondo ha ripercussioni sull’altra metà del mondo, perché non dovrebbe essere così per un essere umano, da qualunque parte provenga?

Io partecipo alle sofferenze degli ucraini, ma condanno in silenzio, l’indifferenza, la resistenza e il rifiuto per altre vittime in guerra e in fuga dalle bombe e dalla fame. Per me si dovrebbe accendere un po’ di luce anche su e per loro.

E spero che in qualche modo Libertiamoci possa farlo.

(Mi scuso per l’eccessiva emotività e la scarsa efficacia argomentativa, ma ho scritto di getto, di pancia e poco di testa, perché mi è veramente difficile rimanere lucida su questo argomento)

ESSERE “CITTADINANZA ATTIVA”

di Antonio Garofalo

Essere semplicemente cittadino quale titolare di una soggettività giuridica, è cosa diversa dalla cittadinanza attiva ossia dalla capacità di agire da cittadini responsabili e di partecipare pienamente e consapevolmente alla vita civica, culturale e sociale della comunità.  

La definizione attinta e ottimamente richiamata dall’articolo 1, comma 1 della Legge 92/2019, normativa che ha introdotto l’insegnamento scolastico dell’educazione civica, rimarca (e fa bene) il diverso “peso specifico” dei due concetti.

E ciò è sempre più di rilievo, nel rispetto dei diversi cicli scolastici, nella formazione civica e sociale delle alunne e degli alunni.

Questa “rinnovata” intuizione del legislatore, posta nelle “Linee Guida” della legge ha concretizzato e permesso ad associazioni come “Libertiamoci” di poter realizzare nell’anno scolastico 2020/21 un’iniziativa, nel nostro caso un ciclo di incontri, su temi di rilevante attualità: immigrazione, cooperazione internazionale, legalità, ambiente. E soprattutto poter concludere parlando di antifascismo e della Carta dei diritti del cittadino UE.  

Un ideale connubio tra istituzioni e associazionismo, il giusto risalto alla Scuola che, in tale situazione emergenziale causa pandemia, non è stata a guardare, o a subire l’idea di una comunità vuota, ma si è resa attiva.

Si potrebbe sicuramente dire: “tutto si è svolto all’interno di un monitor”. È indubbiamente vero.

A maggior ragione perciò va riconosciuto un merito più grande, senza ombra di dubbio, per quella che è stata la nostra esperienza, al Liceo Classico “Socrate” di Bari attraverso la dirigente prof.ssa Santa Ciriello e le prof.sse Jessica Garganese e Antonella Castagna ovvero al Liceo Scientifico “Federico II di Svevia” di Altamura attraverso la prof.ssa Mariella Giannuzzi e la prof.ssa Elisa Cacciapaglia. Docenti con le quali –come Scuola di formazione alla cittadinanza attiva– abbiamo collaborato, per dare significato a quello spazio formativo affinché norme, diritti e doveri possano essere interiorizzati traducendosi in atteggiamenti e comportamenti, autentici per la vita scolastica ed extrascolastica.

Al centro del percorso formativo di cui si parla, filo conduttore di tutti gli incontri che si sono susseguiti dagli inizi di gennaio, è stata posta la Costituzione della nostra Repubblica; la Carta come “codice chiaro e organico di valenza culturale e pedagogica”, presentata ai discenti come bussola di valori da cui partire, e da seguire, per intraprendere la realizzazione di obiettivi in grado di essere condivisi, e accessibili a tutti, oltre che fonte d’ispirazione per discipline e attività che si svolgono appunto nella scuola stessa.

A tal proposito è corretto e opportuno citare ora, singolarmente, relatrici e relatori con i relativi temi trattati; un vero e proprio comitato scientifico che ha saputo sviluppare e portare a termine lo scopo che ci eravamo prefissi come associazione: conoscenza, sentimento, riflessione sui significati della storia contemporanea e di recente passato, sulla pratica quotidiana del dettato costituzionale, in relazione anche all’aspetto “sovranazionale” dell’Unione Europea.

Un autentico grazie a:

  • dott. Maurizio Moscara che ha sviluppato il tema dell’immigrazione anche sulla base del libro di cui è autore “Marenostro, naufraghi senza volto”;
  • dott.sa Carla Lucia Leone titolo della sua relazione “Cooperazione internazionale e solidarietà: viaggio attraverso la crisi dei rifugiati siriani in Libano e gli effetti del cambiamento climatico nell’Africa Sudorientale”;
  • dott. Enzo Suma educatore ambientale e naturalista che ha parlato di “Riuso e progetto nazionale di Archeoplastica”.  “Tutela degli ulivi monumentali della Puglia”;
  • dott. Mario Dabbicco fondatore in Puglia dell’associazione “Libera” il quale insieme a Giuseppe Fazio hanno provato a far comprendere “ai ragazzi” il valore educativo delle vittime innocenti di mafia, partendo da una bellissima frase di Giovanni Falcone, “Perché una società vada bene, basta che ognuno faccia il proprio dovere”;
  • prof. Pasquale Martino il quale ha tenuto una lezione dal titolo “Dall’antifascismo alla Costituente. Nascita di una Repubblica”;
  • prof. Nicola Colaianni anche lui ha svolto una lezione su “La cittadinanza attiva nella Costituzione (e nella Carta dei diritti del cittadino della UE)”;

e non ultimi le prof.sse Donatella Albergo, Bianca Maria Fanti, Giuseppina Perrini e la sig.ra Roberta Giordano che per l’associazione hanno creato e si sono impegnate per la migliore riuscita degli eventi, come effettivamente a mio avviso poi è stato. Non me ne vogliate se concludo dicendo che i veri protagonisti, alla fine, sono state le domande, le riflessioni, le sensibilità, i commenti delle “ragazze e ragazzi”, studenti (maturandi e non) che hanno dato vita al dibattito seguito a tali incontri, compresi coloro che sono rimasti in silenzioso ascolto. Sono convinto che i frutti arriveranno.

Parole a sinistra

Data l’attualità del tema, pubblichiamo l’articolo ricevuto dal dott. Maurizio Moscara (Dirigente pubblico presso gli enti locali dipendente del Ministero degli interni; Coordinatore nazionale dell’ente Officine della Legalità; Responsabile dell’Organizzazione di volontariato PER.I.P.L.O), per promuovere un eventuale dibattito sul tema da lui proposto.

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Le parole sono importanti. Le parole contano. Perché non sono solo parole. Sono il nostro biglietto da visita, sono il nostro modo di presentarci. Sono anche il nostro modo di essere, di affermare chi siamo: sono la nostra identità. E vanno scelte con la stessa cura con cui si prescrivono le medicine per un paziente debilitato dalla malattia affinché la cura non finisca con l’essere peggiore del male. Fragili o forti, sussurrate o urlate, sono capaci di demolire o costruire. Non sono mai solo parole. Allora, sceglierle con convinzione diventa importante; anche ignorarle – o evitare scientemente di utilizzarle – è importante e può essere letto come un segnale. Un segnale inequivocabile.

Ebbene, una parola – fondamentale – è la parola “ultimo”, “ultimi”. Farebbe parte innanzitutto del vocabolario della c.d. sinistra se non fosse stata accantonata già da un bel po’. Con coscienza e volontà, come si dice a proposito dei reati dolosi. Eh sì: su quella parola era nato il solidarismo, su quella parola si erano costituite le società di mutuo soccorso, su quella parola si era fondato il sindacalismo, il cooperativismo, lo stato sociale, evoluzione di quello di diritto. Non che gli ultimi non ci fossero mai stati prima, anzi. Ma la rivoluzione industriale e quella francese ebbero il merito di costituire il presupposto per la genesi di una coscienza di classe: il quarto stato, il proletariato urbano e rurale acquisivano, per la prima volta, la consapevolezza di essere stratificazione del contesto di riferimento, si guadagnavano una dimensione sociale; prendevano atto della loro assoggettamento allo sfruttamento e della loro condizione di ultimi, quindi oppressi, e iniziavano a immaginare – cosa più importante – un futuro di emancipazione e di liberazione. Nasceva in quel momento, nei sobborghi urbani, nei capezzali rurali, nelle periferie delle città, il concetto – anzi il sogno – di sinistra poi elaborato dai teorici e filosofi che analizzarono queste fondamentali trasformazioni sociali. Si può tranquillamente affermare che se la storia non avesse prodotto gli ultimi – e dunque gli sfruttati e gli oppressi – il mondo avrebbe potuto fare tranquillamente a meno della sinistra.

Ebbene, quella parola è stata cancellata dalla memoria della sinistra occidentale negli ultimi decenni, per non dire che è stata avversata.

Fu il vecchio e saggio Pietro Ingrao a rendersi conto della perversa mutazione genetica all’inizio degli anni ’90 e a ricordare a tutti che la sinistra deve ripartire dagli ultimi, perché se non riparte dagli ultimi, sinistra non è. E’ un’altra cosa, come è stata un’altra cosa, come è stata una cosa e niente di più.

Tornare alle parole, però, costa perché poi bisogna essere coerenti: non si può parlare da don Chisciotte e comportarsi da don Abbondio. E costa anche perché, per servirsi di quella parola, “ultimi”, bisogna avere coraggio. Quello stesso coraggio che è mancato a chi, di fronte a quel caterpillar che è stato il jobs act, è rimasto nel governo (per uscirne un anno dopo, non si capisce bene per quali motivi); a chi ha taciuto di fronte alla progressiva precarizzazione delle condizioni lavorative iniziata con le riforme Treu, che hanno fatto carta straccia delle straordinarie conquiste del mondo del lavoro tornando indietro nel tempo e riportando le lancette dell’orologio allo status ante 1970; a chi ha coltivato interessi di bottega di fronte all’inarrestabile privatizzazione dei servizi pubblici essenziali; a chi ha fatto spallucce di fronte al progetto di legge sullo ius soli, attendendo che lo scorrere del tempo svuotasse i poteri del parlamento e ne rendesse vana ogni aspirazione; a chi ha ritenuto di non dire nulla circa il progressivo abbandono delle periferie collaborando anzi alla perversa operazione di taglio alla spesa pubblica di ospedali e pensioni; a chi, di fronte alla modifica dell’art. 81 della Costituzione e alla introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione ha addirittura votato a favore; a chi dinanzi ad autonomia differenziata e gabbie salariali non batte ciglio, anzi.

Sì: la sinistra ha davvero smarrito la strada perché, in definitiva, ha perso l’anima ed è diventata, appunto, una semplice cosa. Che non è né carne né pesce perché è una entità senza identità, una brodaglia tiepida da somministrare indifferentemente d’estate e d’inverno perché l’oste dice che quello passa il governo e che quella minestra sciapa è comunque meglio dell’olio di ricino (e hai voglia a implorarlo di dire qualcosa di sinistra). Con il risultato che quando poi qualcuno dice che non c’è più differenza tra i due schieramenti politici non lo si può biasimare. E se negli ultimissimi anni una differenza c’è, tutto questo non è dovuto a una sinistra ferma, inerte, indolente, apatica, bensì a una destra che si sta progressivamente radicalizzando, che è riuscita finanche a sdoganare lo spauracchio del fascismo, cosa impensabile quando la sinistra era forza di lotta e di governo, cioè quando aveva l’autorevolezza per ricordare a tutti che il fascismo è un reato in base alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione; che l’antifascismo è un valore costituzionale e non una semplice corrente di pensiero, perché la Costituzione è antifascista, non in quanto contraria a qualcosa o qualcuno, bensì perché rivendica esattamente tutte le libertà, diritti e conquiste che il fascismo aveva cancellato e che continua ad avversare essendo esso un metodo e non una ideologia nella accezione classica del termine. Ma per una classe dirigente amorfa, anche l’antifascismo poteva essere riposto nell’armadio con un po’ di naftalina: chi può dimenticare il tentativo di una destrutturazione valoriale della Resistenza in nome di una vuota e melliflua pacificazione nazionale?

Aveva ragione il povero don Abbondio quando affermava, dopo il colloquio con il cardinale Federigo, ‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare’: proprio quella parola, “ultimi”, comporta infatti una buona dose di coraggio poiché obbliga a compiere una decisa scelta di campo, rende impossibile rimanere neutrali. Come insegna il compianto Luciano Gallino le due vittime principali della restaurazione ordoliberista e turbocapitalista sono state l’uguaglianza e il pensiero critico. Quest’ultimo è stato scientemente destrutturato fino a quando non si è riusciti a rendere incapace di reazione una intera area di opinione che faceva riferimento ai c.d intellettuali di sinistra o progressisti. L’intellighenzia di sinistra è stata così cannoneggiata dai potenti mainstream delle forze neoliberiste e ridotta alla resa in breve tempo. Un esempio? Quando si discute di risorse, quando si chiedono soldi per la crisi determinata dal Covid, arriva subito il sorrisino ebete dell’economista presunto progressista di turno che alza il dito e chiede: E dove sono le risorse con la situazione di debito che abbiamo e con tutta la povertà che c’è in giro?

In realtà, le risorse ci sono. Eccome. Poiché, altrimenti, non si spiegherebbe come mai negli ultimi 30 anni e, in particolare a partire dalla Grande Recessione del 2008, la forbice tra ricchi e poveri si sia divaricata, il numero dei più ricchi si sia ridotto con un aumento contestuale dei loro patrimoni e il numero delle persone più povere si sia invece incrementato con una diminuzione delle risorse a loro disposizione; e come mai, infine, la classe media continui, costantemente e progressivamente, a perdere pezzi. Tra l’altro, è normale che la ricchezza di un Paese aumenti con il passare del tempo salvo che non vi siano fattori patologici a deviare il corso degli eventi: in un tempo relativamente breve aumentano le conoscenze, le tecnologie e i saperi; l’uomo si evolve, scopre nuove tecniche, ad esempio come incrementare i raccolti, rinviene nuove fonti energetiche per preservare il pianeta e ridurre conseguentemente le spese collegate ai danni prodotti dall’inquinamento. In effetti il PIL mondiale aumenta ogni anno. Perché il problema è piuttosto quello della concentrazione dei beni e della distribuzione delle ricchezze; quello della disponibilità e della accessibilità delle risorse; quello della utilizzazione dei capitali, della loro allocazione, della selezione dei destinatari.

Su tutto ciò la sinistra occidentale non dice nulla da trent’anni: si limita piuttosto a subire l’imposizione di modelli ingiusti di distribuzione del reddito estranei alla propria impostazione teorica, perdendo progressivamente la propria capacità reattiva. E questo avviene perché si è deciso di sacrificare tutto sull’altare del dio denaro elevando a dogma assoluto il modello di sviluppo capitalista e il sistema di produzione e distribuzione dei beni e di accesso ai servizi da questo imposto. Non è un caso, a proposito di linguaggio, che la c.d. sinistra abbia adottato un idioma, un gergo, ritenuto semplicemente ostile fino a pochi anni perché deputato a demolire tutto ciò che fosse pubblico, che appartenesse allo stato, alla collettività, alla comunità. Privatizzazione dei servizi pubblici, razionalizzazione della spesa pubblica, flessibilità del rapporto di lavoro, libertà del datore di lavoro nella gestione dell’azienda. Erano e sono le parole dell’ipocrisia, usate per non pronunciare i termini che invece evidenziano con chiarezza lo stato reale delle cose: accaparramento, riduzione, precarizzazione, licenziamenti. E ci voleva un papa a sollevare il problema, provocando l’ira di una parte consistente dei poteri che dominano il mondo e che sfruttano i popoli.

La sinistra non è sinistra se non abbandona quel linguaggio e non denuncia con determinazione che questo perverso modello di sviluppo è fallito e non va riformato, va sostituito. Non è sinistra se non coltiva almeno l’idea di costruire un modello alternativo. Non è sinistra se parla di transizione ecologica e non di conversione ecologica; di riformismo e non di alternativa; di condizioni che determinano disagio sociale e non di situazioni di ingiustizia sociale. Non è sinistra se non parla delle cause di impoverimento degli stati, delle cause di sfruttamento dei popoli.

Sì, le parole sono importanti e la sinistra le ha perse per strada perché ha smarrito proprio la strada. E tuttavia adesso è giunta l’ora di liberarsi dal pesante fardello che ha schiacciato il pensiero progressista e socialista occidentale. Perché adesso? Perché siamo alla vigilia della più grande trasformazione sociale ed economica del mondo dal secondo dopoguerra ad oggi: il virus ha messo a nudo i difetti di un mondo costruito sulla finanza e sull’economia che si è trovato impreparato dopo aver smantellato ospedali, medici, infermieri, dopo aver ridotto la spesa pubblica per ricerca scientifica e medica. Il nostro mondo è un mondo nudo di fronte alle grandi difficoltà, incapace di difendere le persone. E poi da questa crisi emerge potenzialmente un nuovo senso di comunità perché è evidente che per battere il virus e la povertà che ne è conseguita servono coordinamento, cooperazione e solidarietà globale: ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come mai accaduto prima. Questa crisi ha messo in luce le differenze sociali enormi che non possono essere più accettate; ha evidenziato un sacrificio dell’idea di pubblico e di collettività che ha determinato danni sulla comunità e su ciascun individuo; ha lasciato sole le persone perché sino a questo momento hanno cercato di convincerci su quanto sia giusto dare centralità a individualismo, competitività, produttività.

In realtà, gli “ultimi” sono il centro della politica, non un aspetto, non un dettaglio, non un tema di essa. Prendiamo ad esempio le persone migranti. Nei contesti sociali occidentali sono fisiologicamente gli ultimi, come se ciò fosse quasi ordinario: anzi, sono gli ultimi degli ultimi, i deboli dei deboli, gli oppressi degli oppressi. Anche nelle realtà cosmopolite (New York, Londra, Parigi) il rischio di esclusione e di emarginazione tocca con maggiore frequenza i migranti: livello degli stipendi, qualità dei posti di lavoro, scarsità di incarichi di prestigio, posizione sociale, necessità di accesso ai servizi sociali, propensione alla devianza, sono elementi fortemente indicativi della condizione di generale marginalità di chi non è autoctono. Orbene, il grado di attenzione che una società riesce a prestare a queste persone, costrette ad una posizione di oggettivo svantaggio, è emblematico della sensibilità che la stessa comunità riserva a tutte le situazioni di esposizione, fragilità e sofferenza. Non si può avere sensibilità per l’italiano povero e non per il mendicante straniero; non si può provare compassione per il disabile del proprio condominio e non per quello che abita in periferia; non si può intervenire in favore della famiglia disagiata di colore bianco e chiudere le porte in faccia a quella di altro colore. Non si può perché la cura dei deboli funziona esattamente come la cura dei malati (trattandosi appunto di cura): come un medico – in conformità al giuramento di Ippocrate – non può fare distinzione tra malato e malato, così una società non può discriminare al suo interno elaborando un concetto di maggiore o minore diritto, di maggiore o minore prossimità. E non si può perché tale ragionamento tenderebbe inevitabilmente a ridurre in modo progressivo la platea degli aventi diritto alle prestazioni sociali. Siccome le risorse economiche sono limitate, si metterebbe in moto un meccanismo di costante riduzione di chi è considerato meritevole di intervento fino al momento in cui, radicalizzando il ragionamento, ciascuno di noi potrebbe rimanerne vittima. E sì. Perché il concetto di “ultimo” non è un concetto fisso, stabile, statico ma è fluido, mobile, dinamico: “ultimo” non è solo il migrante arrivato con il barcone, ma è anche il quadro licenziato dalla grande multinazionale che delocalizza all’estero la manodopera; oppure il capofamiglia che si trova all’improvviso senza lavoro, senza casa, senza contesto di riferimento; o il commesso della boutique del centro che chiude a causa degli effetti del lockdown; o la famiglia monoreddito che stenta ad arrivare alla quarta settimana del mese. “Ultimo” può diventare ciascuno di noi. “Ultimo” è chi si trova improvvisamente in uno stato di bisogno che nella sua mente aveva scartato totalmente come ipotesi.

Ecco perché l’argomento “Ultimo, ultimi” dovrebbe costituire la preoccupazione principale di ogni sforzo politico, il cuore di ogni politica di sinistra, diretta a salvaguardare prima di tutto le condizioni difficili delle persone che versano in uno stato di maggiore difficoltà per poi, gradualmente, interessarsi degli altri.

I care, ho a cuore, mi interesso dell’altro, certo. Come diceva don Milani, però; non come una certa sinistra che, mentre cavalcava comizi e convention con questo detto, stringeva alleanze con i più forti, con quelli cioè che costituiscono ancora oggi la causa principale di quel processo di impoverimento e di quella operazione di disuguaglianza che attanagliano la nostra società e che stanno, progressivamente, cancellando la classe media.

Allora, la sinistra riparte dagli “ultimi”. “Ultimi”: questa parola che deve catturare la sua attenzione, che non deve permettere distrazioni, ben numerose in questi ultimi trent’anni in cui, non a caso, il consenso ai partiti occidentali di sinistra si è spostato dalle periferie sempre più sporche ai centri urbani sempre più eleganti: dai poveri ai ricchi, dagli oppressi agli oppressori. Ed è così che ha preso forma la sinistra dei talk show, dei salotti, delle nicchie, delle elite, spogliata della sua anima, incapace di rimboccarsi le maniche e di sporcarsele. Quella sinistra condannata a cercare di recuperare terreno sul piano dei diritti individuali (dimenticando che nelle democrazie liberali, questi sono un patrimonio di tutti: in GB è stato Cameron a promuovere e approvare la legge sulle unioni gay). Archiviando così la centralità dei diritti sociali che esprimono una condizione del tutto e dei tutti, che non appartengono al singolo ma che si identificano nella collettività. Perché, se è vero che l’uguaglianza senza libertà può diventare autoritarismo è anche vero che i diritti senza uguaglianza diventano privilegio: consentito a chi se lo può permettere perché ha già messo a posto tutto il resto. A fare parte uguali tra diseguali si commettono le peggiori ingiustizie (sempre don Lorenzo Milani) perché l’uguaglianza è giuridicamente concreta solo quando essa costituisce salvaguardia della libertà diseguale. Altrimenti è formalismo giuridico, propenso e funzionale a mantenere le distinzioni e i privilegi presenti nella società civile. Come accade con il famoso brocardo in base a cui La legge è uguale per tutti: che non è vero perché il diritto è più eguale per chi ha la possibilità di pagarsi gli avvocati migliori e di sfruttare così i meccanismi e le procedure in modo a sé favorevole. Il formalismo giuridico garantisce le libertà solo in modo astratto ed è questo il vortice da cui si è fatta inghiottire la sinistra occidentale tra la fine del XX secolo e l’inizio di questo. Il dibattito si è così concentrato sui diritti civili poiché essa non aveva più niente da dire su quelli sociali, finiti nelle fauci di un neoliberismo vorace e predatorio, inghiottiti dal totem dell’efficientismo a ogni costo, da quell’idea economicista e monetarista della società in base alla quale le persone vengono dopo, essendo merce. Una specie di sorpasso a destra del liberismo classico, se così si può dire. Non più e non solo il lavoratore come merce ma la mercificazione della persona, la conversione in chiave economica dell’essere umano che ha diritto alla vita in quanto in grado di produrre. Vacca da mungere fino alla pensione: e dunque innalzamenti continui dell’età pensionistica e riduzioni costanti del trattamento economico spettante; così, tagli di spese alla sanità lasciando maggiormente in difficoltà chi la visita o l’esame privato in poco tempo non se lo può permettere e deve aspettare i tempi di una sanità pubblica martoriata dalle misure di contenimento (fiscal compact e crimini del genere).

Si chiama cultura dello scarto e si pratica mediante l’eugenetica: cioè la selezione dei più deboli. Tremendamente coerente con la dottrina neoliberista e sciaguratamente attuale nella gestione del Covid da parte dell’occidente (e non solo): la morte di poche persone (in numero assoluto), specialmente trattandosi degli anziani e dei più deboli, è stata ritenuta un sacrificio accettabile perché nel frattempo l’economia doveva girare. Quando il numero delle vittime è aumentato e, inevitabilmente, si è scoperto che non sono solo le persone più anziane ad avere problemi, è ripartita una politica delle chiusure più rigide ma solo perché il fenomeno rischia comunque di provocare dei danni a livello economico.

Ebbene, per la sinistra è giunto il tempo di andare alla ricerca, di recuperare le parole perdute, di prendersene finalmente cura per farle crescere di nuovo: “ultimi”, “oppressi”, “sfruttati”; e poi “fragili”, “vulnerabili”, “soli”; e ancora “deboli”, “esposti”, “sensibili”. Dare nuova linfa a queste parole significa scegliere da che parte stare, preferire una parte del campo, evitare di rimanere al centro, evitare di farsi consumare da uno sterile riformismo che ha prodotto vuoti apparati partitici e vanagloriosi comitati elettorali, rinunciando alle proprie idee sepolte da una terminologia vuota e inconsistente: stakeholder, management, governance, spending review, accountability. Espressioni funzionali alla menzogna, all’inganno, utilizzate per raggirare quella gente, quelle comunità, quella grande parte di popolo che aveva a lungo coltivato il sogno della sinistra: e cioè la speranza in un futuro di emancipazione e di liberazione. Quando Tarantelli affermava che L’utopia dei deboli è la paura dei forti, lui che era riformatore e non riformista, si riferiva proprio a questo: al coraggio delle parole che la sinistra ha perso.

Parte proprio dalle parole la riscossa della sinistra sulla quale grava una grande responsabilità, derivante dal fatto che la destra liberale, libertaria e democratica non esiste quasi più: Churchill, Khol, Chirac, La Malfa, Rothard non ci sono più. Esiste un’altra destra, strettamente legata al ventennio e agli anni bui della Repubblica. Si tratta cioè di affrontare la sfida decisiva perché lo scontro finale è arrivato alle sue estreme conseguenze e perché così ha voluto la storia: scontro che si definirà o in una condizione di emancipazione più o meno permanente e stabile delle classi subalterne, come sembrava stesse accadendo nell’Europa degli anni ’60/70 dello scorso secolo, o nel nuovo asservimento, nella nuova schiavitù.

Adesso è il tempo: la sinistra deve ritrovare le parole giuste per fare pace con la propria coscienza, che poi significa fare pace con la propria gente, quella che tradita dai propri punti di riferimento a casa propria si è buttata tra le braccia dell’ammiccante avversario. Come è successo a Mirafiori, nelle periferie delle grandi città, nelle campagne del tavoliere pugliese, nelle miniere del Sulcis, in parte di quella roccaforte rossa che dal Delta del Po’ all’Argentario, passando per gli Appennini, taglia in due lo Stivale. Bisogna fare pace proprio con loro: con gli “ultimi”.

E non c’è più tempo, non si può prendere ancora tempo, non si più perdere tempo. Perché ne è stato già sprecato tanto: abbiamo buttato al vento in questi anni intelligenze e risorse, abbiamo sprecato idee, abbiamo disperso energie e giovani. E ci siamo ingrigiti, appiattiti, omologati. Imbastarditi. Sostanzialmente siamo stati proni. E abbiamo ricusato le visioni e le utopie, abbiamo abdicato a ogni spinta verticale, abbiamo rinunciato alle parole su cui un sogno, quel sogno, era stato faticosamente costruito. Ma ora non c’è più tempo.

Gli “ultimi” non possono più aspettare.

Maurizio Moscara

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