
Carla Lucia Leone, una redattrice di Libertiamoci, è l’autrice di questo articolo che ci apre una nuova visuale sulla situazione di Damasco. Proviamo a guardare la primavera araba con gli occhi di Mohammad e di Amira, nomi di fantasia dati da Carla Lucia a veri personaggi da lei incontrati a Damasco.
Nella profumata Damasco i muezzin cantano ancora, tutti i giorni, cinque volte al giorno, seguendo la luna. Scandiscono il tempo e lo raccontano come fa il sole, come fanno le stelle e come fanno le stagioni.
Che tu sia musulmano, cristiano, buddista, ateo, quel richiamo tocca anche te. Invita a fermarti. È l’alba, è mattina, è mezzodì, è pomeriggio, è sera. Il tempo passa, come sempre. A volte è rassicurante, familiare. A volte è malinconico, a volte angosciante. Soprattutto adesso, in Siria.
Sono passati mesi dall’inizio della “rivoluzione”, da quando a Daraa l’arresto di 15 bambini che scrivevano sui muri gli slogan della Primavera Araba diventò l’evento simbolo, la scintilla di un fuoco rivoluzionario ancora senza forma e dall’identità confusa.
Ho lasciato Damasco quando l’estate era alle porte, quando al souq si vendevano fragole e albicocche e l’aria profumava di spezie e di gelsomini. E la ritrovo in autunno, ora che il souq è colorato di uva e di melograni e l’aria ha lo stesso identico, amato profumo di spezie e di gelsomini.
Percorro Qaimaryeh, la stradina turistica di Damasco vecchia e ritrovo i sorrisi dei vecchi amici, i ragazzi dei negozi che mi salutano in italiano, mi invitano ad entrare e mi offrono té. Sembra tutto come prima, tutto incantato, lo stesso paradiso racchiuso nelle antiche mura romane fatto di sorrisi, di gioventù, di falafel e shawarma, di musica, di profumo narghilè.
Mi siedo con Mohammad a bere del té e bastano pochi minuti per capire che Damasco non è proprio uguale a come l’ho lasciata. Mohammad è triste, ha paura. Il Ramadan non è stato il solito mese di luci e di feste notturne: la tensione è stata alta, troppa gente è morta nel resto del paese. Non c’è lavoro, non c’é turismo, non c’é commercio. Gli chiedo dei nostri amici. Molti sono andati via, qualcuno ha sposato delle ragazze europee, qualcuno ha raggiunto parenti in Libano, qualcuno, coinvolto nelle insurrezioni alla periferia di Damasco, è scappato in Turchia. Anche Mohammad vuole andar via.
A lui della politica non interessa niente. Sa che è siriano, musulmano. Ed é orgoglioso di esserlo, anche se beve alcol e non prega cinque volte al giorno. Sa che l’Islam è parte della sua vita e della sua identità. Sa che odia Israele, odia gli Stati Uniti. Sa che lavora in un negozio che vende tessuti damasceni che ora non compra nessuno. Sa che prima, tutto sommato, lui stava bene. Sa che quello che pensa lui non importa al Governo siriano, ma tanto meno importa all’occidente. E sa che la parola “democrazia” non hai mai portato niente di buono.
Chi ha deciso che i ragazzi di Tunisi, di piazza Tahrir, di Bengazi, volevano essere come noi? Chi ha deciso che volevano delle forme di governo come le nostre, dei costumi come i nostri, una laicità dello stato (tutta da dimostrare) come la nostra? Quanto abbiamo ascoltato questi ragazzi prima di insediarci nelle loro piazze e derubarli della loro rivoluzione? E quali potrebbero essere le conseguenze dell’intromissione dell’occidente nelle decisioni di uno stato sovrano?
Pensiamo, prima di tutto, al “fondamentalismo islamico”. Gli uomini barbuti che insaccano le donne spesso non sono altro che la risposta alle azioni forzose di potenze esterne che si intromettono. Guardiamo l’Iraq. Una volta abbattuto Saddam, ha preso consenso la componente sciita con il risultato che oggi quelli che comandano sono gli ayatollah iraniani, gli acerrimi nemici dell’ “occidente democratico”.
Guardiamo la Tunisia. Nel nuovo parlamento germogliato dalla rivoluzione dei Gelsomini, siederanno 217 membri di cui 90 sono i deputati di An Nahda (la rinascita), il partito di ispirazione islamica che nelle elezioni di ottobre ha preso circa il 40% dei voti.
La risposta agli attacchi di questo neocolonialismo è spesso una ricerca di identità che sfocia in nazionalismi e fondamentalismi religiosi.
In Siria la repressione degli Assad non fa più paura che immaginare un futuro molto prossimo come quello della Libia dove si è consumata una guerra impari, tra la NATO e le forze a sostegno di Gheddafi. I primi con i bombardieri e gli altri senza nemmeno una contraerea, proprio in seguito alla richiesta di una no fly zone per Gheddafi in modo che non avesse questa superiorità sui ribelli. Un paese, la Libia, di cui i leader occidentali già si spartiscono le ricchezze e ai libici lasceranno solo le briciole.
Le immagini di Sirte rasa al suolo, le macerie di Tripoli, la distruzione, passano insistentemente su Al Jazeera e sembra che dicano “siriani, ecco dove passa la democrazia! E tra poco potrebbe toccare a voi”.
Per questo Mohammad è orgoglioso di essere siriano, musulmano, arabo. È “orgoglioso di non avere una carta American Express e non mangiare würstel” mi dice, “Orgoglioso di desiderare una moglie vergine, che porti il velo e che non sia come quelle puttane occidentali. Orgoglioso di fare il Ramadan, perché qui noi facciamo Ramadan e tutti dovrebbero rispettare Ramadan”.
Un futuro analogo a quello della Libia fa paura anche ad Amira, studentessa di medicina, discendente di generazioni di oppositori degli Assad, sia il padre Hafez che l’erede Bashar. Lei non porta il velo e parla arabo, inglese, francese, spagnolo e legge i giornali. Lei vorrebbe giornali liberi nel suo paese, vorrebbe elezioni libere, vorrebbe che fosse abolito l’articolo 8 della Costituzione, quello che assegna il ruolo “dirigente nella società e nello stato” al partito Baath. Ma non crede che i nostri giornali siano liberi, che i nostri governi siano democratici. Crede che Berlusconi sia un pagliaccio, Obama un bugiardo e Netanyau “il più stronzo tra gli stronzi”.
Anche Amira è orgogliosa di essere siriana. Si arrabbia quando sente le comunità siriane che dall’estero gridano “il popolo vuole la caduta del regime” , sia perché non conoscono la durezza della repressione, sia perché non si sforzano di fiutare quali progetti si stanno nascondendo dietro quelle belle parole.
E prima che il muezzin interrompa la nostra conversazione, mi dice di sentirsi come una “pedina in una grande scacchiera: se si muove in avanti viene mangiata dal cavallo, se si sposta di lato, la mangia l’alfiere. Ma è il suo turno e deve fare la sua mossa”. Le stanno rubando quello che lei intendeva quando aveva creduto ai coetanei tunisini ed egiziani. Le stanno rubando il potere di pensare, di parlare, di decidere.
Allah wa akbar allah wa akbar, canta il muezzin. La illah illa Allah. Il pensiero del tempo che scorre stavolta è angosciante. Al Jazeera passa le immagini di Gheddafi assassinato, di Sirte distrutta. Poi un servizio sulla Siria: la repressione, il faccione di Bashar Al Assad.
Amira conclude: “mi stanno rubando il momento della mia mossa. Il mio futuro. La mia rivoluzione. Mi stanno rubando il momento in cui anche io avevo provato a urlare hurrya wa dimukratya”. Libertà e democrazia.