
La nostra redattrice Carla Lucia Leone ci invia questo articolo da Beirut.
Beirut, 30 marzo 2012
E’ passato un anno dall’inizio della Thaura Surieh, la rivoluzione siriana. Il giovedì sera, nei locali di Hamra, a Beirut, i siriani festeggiano il primo compleanno della loro rivolta. Sono giovani, la maggior parte di loro ha lasciato il paese per fuggire al servizio militare reso obbligatorio da quest’autunno. Sono felici, emozionati, euforici, forse solo alticci. Si suona l’oud, si cantano gli inni della rivoluzione, si beve arak, si fuma, si balla la danza debke, si sgranocchiano noccioline e si battono le mani. Qualcuno ha intorno al collo la bandiera della Siria Libera che ha sostituito la fascia rossa, come il sangue dei martiri, con il verde, il colore dell’Islam.
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Da marzo dell’anno scorso sono migliaia i siriani che hanno lasciato il loro paese. La maggior parte ha varcato il confine turco, molti altri quello libanese. Così tanti che il presidente della Caritas Libano, padre Simon Faddoul, dichiara che è in corso ”un’emergenza umanitaria”. L’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati conta tra gli 8 e i 9 mila profughi siriani in Libano. Ma c’è da pensare che siano molti di più. Solo una minima parte, infatti, ha il coraggio di registrarsi ufficialmente. La maggioranza teme ripercussioni su di sé e sulla propria famiglia ancora in Siria. Secondo la Caritas, i profughi si aggirerebbero intorno ai 20 mila. Di questi, circa 7 mila si trovano nella valle di Bekaa, la zona montuosa a confine con la Siria, da sempre roccaforte del partito Hezbollah.
Nonostante l’ambasciata americana inviti il governo libanese a fornire un rifugio sia ai civili che ai militanti dell’ FSA (Free Syrian Army ), il Libano si mostra restio a una completa accoglienza dei rifugiati. Alle pressioni dell’ambasciatrice americana Maura Connelly il ministro degli Esteri libanese ha risposto: “Nessuno può imporre al Libano la linea da seguire, perché il governo si comporta in conformità ai suoi interessi”. Beirut non ha “nessuna intenzione di avere un nuovo Campo Ashraf 1 “.
Hezbollah detiene la maggioranza dei seggi in parlamento e costituisce il primo alleato del partito Baath siriano. Ma l’appoggio a Damasco non è trasversale. La presenza sunnita che si oppone al regime di Assad è forte anche qui in Libano. Nelle ultime settimane si sono verificati diversi scontri armati nelle maggiori città del paese. A Tripoli, nell’ultimo mese, i miliziani di un quartiere sunnita si sono scontrati con l’ area alawita, vicina al regime Assad. A Beirut, in pieno centro, si alternano i cortei di entrambe le fazioni e le bandiere verdi della Siria Libera sventolano per le strade di Beirut incontrandosi e spesso scontrandosi con quelle rosse della Siria Baathista.
In Siria il compleanno della rivoluzione si festeggia in un bagno di sangue. Il 17 marzo, a Damasco, due autobombe esplodono nei quartieri di Al-Qasaa e di Duar al-Jamarik di fronte all’edificio dei servizi segreti dell’aeronautica militare siriana e alla sede della Sicurezza militare. Il bilancio è di 27 morti e 140 feriti.
Alle 7:30 del mattino, l’esplosione ha fatto spalancare le finestre e sbattere le porte in tutta la città vecchia: il cuore di Damasco si è svegliato di colpo, convinto che il mondo fosse finito.
La Damasco che ho ritrovato una settimana dopo gli ultimi attentati sembra congelata nel silenzio incredulo e sgomento che succede a un boato. Le strade vuote, i locali anche. Perfino nei caotici suq la gente sembra aggrovigliarsi in stato di shock.
Anche a Damasco, nella città vecchia, la sera si beve arak, si fuma, si sgranocchiano noccioline e si ricorda che è passato un anno dall’inizio della Thaura. Si ricorda una rivoluzione confusa, sfuggita di mano e che ha risvegliato una guerra settaria. Si ricorda un paese piombato nel caos, azzoppato dalle sanzioni e convinto che l’FSA sia una forza di aggressione creata e sostenuta dall’imperialismo e costituita da mercenari e da organizzazioni terroristiche, un esercito direttamente finanziato dal Qatar e dall’Arabia Saudita.
Del resto nelle ultime settimane ad Amman si sono concentrati centinaia di soldati del Gruppo Combattente Islamico in Libia, la milizia alleata con la NATO nella guerra contro Gheddafi. E circa 2 migliaia di combattenti si sono stanziati, con la collaborazione dell’esercito turco, nella provincia di Hatay, a confine tra Siria e Turchia.
Un anno dopo, la sensazione che quello che sta avvenendo in Siria non sia la repressione brutale di una rivolta pacifica, ma una vera guerra di aggressione travestita e spacciata come rivoluzione, diventa sempre più una certezza. Per questo, nonostante l’impotenza e la paura, nei locali della città vecchia di Damasco c’è ancora chi ha voglia di bere arak e sgranocchiare noccioline. Per questo, nonostante l’impotenza e la paura, c’è ancora chi ha voglia di non abbandonare la Siria.
1 Il Campo Ashraf si trova nella provincia di Diyala in Irak, a 80 km dal confine con l’Iran, e accoglie oggi circa 3 mila rifugiati iraniani della People’s Mujahedin of Iran, l’organizzazione che sostiene il rovesciamento della Repubblica Islamica dell’Iran. Dal 2009 l’aera è formalmente sotto il controllo dell’esercito statunitense.
Carla Lucia Leone