“VILLAGGIO TRIESTE”, STORIA (IN CHIAROSCURO) DI ACCOGLIENZA E DI INTEGRAZIONE

Articolo e foto di Donatella Albergo

 

CIRCA SESSANT’ANNI FA, NELL’ESTATE DEL ’56, VENIVANO CONSEGNATE AI RIMPATRIATI LE 26 PALAZZINE DEL “VILLAGGIO TRIESTE”. 316 MINI APPARTAMENTI, VEGLIATI DALLA PARROCCHIA DI SAN ENRICO IMPERATORE

L’occasione è stata la presentazione, mercoledì 30 settembre, di un piccolo volume, edito da LB Edizioni, “Villaggio Trieste, Bari, 1956: una terra di esuli in patria?”, per ricordare questo agglomerato di palazzine alle porte nord di Bari, fra il vecchio Stadio della Vittoria e la Fiera del Levante.

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Coordinatrice della serata la giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno Enrica Simonetti; sono intervenuti Luigi Bramato della casa editrice LB Edizioni e i Sigg. Antonio Scagliarini, Emanuele Cavone, Andrea Perrone con le loro storie e i loro ricordi. La chiesa di San Enrico ha ospitato l’evento, grazie al parroco don Giorgio Lionetti.

In quell’estate di quasi sessant’anni fa, i profughi e i rimpatriati non solo della seconda guerra mondiale, ma anche di precedenti guerre nel Medio Oriente degli anni Venti, come ha ricordato il Sig. Scagliarini, posero fine alla loro decennale odissea con la consegna delle chiavi di un appartamento del “Villaggio Trieste”. Provenivano soprattutto dalla Grecia, ma anche dalla Libia, dalla Turchia, dalla Venezia-Giulia, dall’Albania, dall’Istria, un calderone di lingue e culture diverse che finalmente si fermavano sotto un tetto, fra quattro mura sognate per anni, dopo aver girovagato forzatamente per i centri di raccolta nelle baracche di via Napoli, nella Cattedrale, nella colonia marina di Fesca, perfino nella stazione ferroviaria di Bari. Furono gli stessi profughi e rimpatriati che chiamarono “Trieste” il Villaggio e fu il loro punto di arrivo, l’integrazione dopo lo sradicamento. Non fu facile, ma l’esperimento riuscì. E mentre l’Europa di oggi alza muri e si disgrega in nazionalismi e particolarismi, nel Villaggio risuonano ancora lingue e melodie diverse, aleggiano profumi speziati, si praticano religioni diverse che non sono così distanti come può sembrare. E nella parrocchia di San Enrico si concelebra con rito cattolico e ortodosso. Da quella commistione di popoli e lingue sembra essere nata un’unica identità, in dissonanza con gli orientamenti respingenti di gran parte dell’attuale UE.

Erano soprattutto greci di Rodi, di Corfù, delle isole del Dodecaneso. I loro cognomi sono italiani, ma i nomi greci: Nikiforos, Sofia, Evanghelia, Teodoro… e studenti greci continuarono a venire negli anni Settanta quando il regime dei colonnelli e le università a numero chiuso spingevano i giovani dall’altra parte dell’Adriatico. E il Villaggio li accoglieva.

Era nato un po’ fuori dalla città, un po’ ghetto, un po’ tentativo di integrazione, ma continuò ad accogliere anche gli albanesi quando nel 1991 arrivarono in 20mila al porto di Bari sulla “Vlora”. Raccolti nello Stadio della Vittoria, non lontano dal Villaggio, furono ospitati e aiutati dai residenti. La parrocchia di S. Enrico ne ospitò 50 (e non ebbe bisogno delle sollecitazioni di papa Francesco!).

Il sig. Nikiforos Baldacci ricorda il forzato sradicamento da Corfù a Bari, in nave, scortati da convogli militari e la decennale peregrinazione per i campi profughi di tutta la regione dal foggiano a Leuca e oltre la regione; il filo spinato, il fango, la precarietà e l’arrivo al Villaggio. Prima solo le donne e i bambini, poi il padre… “Io, mio padre, mia madre, non conoscevamo una parola d’italiano! Ci sentivamo greci!” ci dice il sig. Baldacci. “Fu mio nonno a trasferirsi in Grecia. Noi l’Italia non l’avevamo mai vista!”.

Ma è una storia ormai lontana, perché ora che si affaccia la terza generazione dei rimpatriati del “Villaggio Trieste”, osiamo sperare che accoglienza e integrazione sono possibili e che lavorare e vivere in pace si può.

 

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