
Articolo e foto di Donatella Albergo
“Costruite ponti, abbattete muri”. Queste parole mi vengono in mente quando fiancheggio quel bel porticato di pietra. Sotto ogni arco pende un lampione in ferro battuto e sui pilastri del portale d’ingresso grandi candelabri a più luci ricordano vagamente quelli che una volta ornavano i pilastrini del nostro lungomare, prima che una disastrosa mareggiata ne distruggesse buona parte. Anche le cancellate sono sobrie, ma eleganti: in ferro battuto anch’esse e dritte come fusi. Il nero del ferro è alleggerito da elementi di ottone dorato nelle cuspidi e negli snodi. Queste cancellate chiudono l’ampio porticato come il muro di cinta di una fortezza. Corrono lungo tutto l’isolato, da un pilastro all’altro, da un arco all’altro, a circondare tutto il perimetro dell’edificio. A me sembrano sentinelle sull’attenti, terminanti, in cima, con pungenti cuspidi di ottone, quasi baionette di soldati pronti a dire: ”Chi va là? Di qua non si passa!”
Ciò che stride, però, è che quella non è una fortezza, ma una chiesa del nostro quartiere che non ha costruito un ponte, non ha abbattuto un muro, ma ha alzato cancelli e li chiude di notte. Ma forse quelle parole di papa Wojtyla le ho ascoltate solo io.
La mia prima casa era in via Trevisani e lì sono nata. I miei nonni abitavano al primo piano e noi al secondo. Ho frequentato l’asilo attiguo a quella chiesa e d’estate mio padre ci portava qualche volta al piccolo cinema all’aperto che la chiesa gestiva. Lì ho visto “Marcellino pane e vino”, il primo film, quello con il piccolo Pablito Calvo, in bianco e nero perché il cinema non era ancora a colori. Marcellino, con quei suoi pantaloni con la bretella portata di traverso perché troppo lunga e perché ce n’era una sola a reggerli. Qualcuno se lo ricorda? Quante lacrime per Marcellino portato in cielo!…
Forse per darmi una buona educazione religiosa, fatta di veglie e sacrifici, come si usava allora, forse per farsi compagnia, la notte del sabato santo la nonna mi portava alla messa della mezzanotte, quella solenne della pasqua, nella stessa chiesa a me così vicina e familiare. Io mi addormentavo sfinita dall’ora e da quella celebrazione interminabile e mi svegliavo terrorizzata quando, al momento della resurrezione, il drappo rosso che nascondeva la statua di cartapesta del Risorto, scivolava giù a scoprire il Cristo trionfante su una nuvoletta grigio-azzurra. Le vecchie gridavano isteriche (a me sembravano streghe) agitando le mani ossute verso la statua incensata, l’assemblea applaudiva, le campane suonavano a festa e in tutto quel frastuono e sbuffi soffocanti d’incenso, io passavo dal sonno alla veglia in pieno panico.
Non avrei creduto che la chiesa dei miei ricordi e della mia infanzia, la chiesa dell’asilo e del cinema estivo, la chiesa della pasqua e della nonna, avrebbe costruito cancelli di ferro, come mura di cinta chiuse di notte. E perché? Ha paura che un poveraccio vada a dormirci di notte e porti i suoi cartoni come materassi sotto quei portici? Che qualche barbone o tossico o sbandato sporchi il bel colonnato? Ma io avevo capito che costruire ponti e abbattere muri significasse accogliere, avvicinare, unire, aggregare, integrare, accettare, ricevere, ospitare… dare la mano.
Aprire e abbattere cancelli, appunto.
No, quella chiesa e quei cancelli sono in contraddizione, quei cancelli non dovrebbero essere lì, mi dico scuotendo la testa ogni volta che passo.
Marcellino pane e vino (youtube): http://www.youtube.com/watch?v=pdSoclziUhs