Data l’attualità del tema, pubblichiamo l’articolo ricevuto dal dott. Maurizio Moscara (Dirigente pubblico presso gli enti locali dipendente del Ministero degli interni; Coordinatore nazionale dell’ente Officine della Legalità; Responsabile dell’Organizzazione di volontariato PER.I.P.L.O), per promuovere un eventuale dibattito sul tema da lui proposto.
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Le parole sono importanti. Le parole contano. Perché non sono solo parole. Sono il nostro biglietto da visita, sono il nostro modo di presentarci. Sono anche il nostro modo di essere, di affermare chi siamo: sono la nostra identità. E vanno scelte con la stessa cura con cui si prescrivono le medicine per un paziente debilitato dalla malattia affinché la cura non finisca con l’essere peggiore del male. Fragili o forti, sussurrate o urlate, sono capaci di demolire o costruire. Non sono mai solo parole. Allora, sceglierle con convinzione diventa importante; anche ignorarle – o evitare scientemente di utilizzarle – è importante e può essere letto come un segnale. Un segnale inequivocabile.
Ebbene, una parola – fondamentale – è la parola “ultimo”, “ultimi”. Farebbe parte innanzitutto del vocabolario della c.d. sinistra se non fosse stata accantonata già da un bel po’. Con coscienza e volontà, come si dice a proposito dei reati dolosi. Eh sì: su quella parola era nato il solidarismo, su quella parola si erano costituite le società di mutuo soccorso, su quella parola si era fondato il sindacalismo, il cooperativismo, lo stato sociale, evoluzione di quello di diritto. Non che gli ultimi non ci fossero mai stati prima, anzi. Ma la rivoluzione industriale e quella francese ebbero il merito di costituire il presupposto per la genesi di una coscienza di classe: il quarto stato, il proletariato urbano e rurale acquisivano, per la prima volta, la consapevolezza di essere stratificazione del contesto di riferimento, si guadagnavano una dimensione sociale; prendevano atto della loro assoggettamento allo sfruttamento e della loro condizione di ultimi, quindi oppressi, e iniziavano a immaginare – cosa più importante – un futuro di emancipazione e di liberazione. Nasceva in quel momento, nei sobborghi urbani, nei capezzali rurali, nelle periferie delle città, il concetto – anzi il sogno – di sinistra poi elaborato dai teorici e filosofi che analizzarono queste fondamentali trasformazioni sociali. Si può tranquillamente affermare che se la storia non avesse prodotto gli ultimi – e dunque gli sfruttati e gli oppressi – il mondo avrebbe potuto fare tranquillamente a meno della sinistra.
Ebbene, quella parola è stata cancellata dalla memoria della sinistra occidentale negli ultimi decenni, per non dire che è stata avversata.
Fu il vecchio e saggio Pietro Ingrao a rendersi conto della perversa mutazione genetica all’inizio degli anni ’90 e a ricordare a tutti che la sinistra deve ripartire dagli ultimi, perché se non riparte dagli ultimi, sinistra non è. E’ un’altra cosa, come è stata un’altra cosa, come è stata una cosa e niente di più.
Tornare alle parole, però, costa perché poi bisogna essere coerenti: non si può parlare da don Chisciotte e comportarsi da don Abbondio. E costa anche perché, per servirsi di quella parola, “ultimi”, bisogna avere coraggio. Quello stesso coraggio che è mancato a chi, di fronte a quel caterpillar che è stato il jobs act, è rimasto nel governo (per uscirne un anno dopo, non si capisce bene per quali motivi); a chi ha taciuto di fronte alla progressiva precarizzazione delle condizioni lavorative iniziata con le riforme Treu, che hanno fatto carta straccia delle straordinarie conquiste del mondo del lavoro tornando indietro nel tempo e riportando le lancette dell’orologio allo status ante 1970; a chi ha coltivato interessi di bottega di fronte all’inarrestabile privatizzazione dei servizi pubblici essenziali; a chi ha fatto spallucce di fronte al progetto di legge sullo ius soli, attendendo che lo scorrere del tempo svuotasse i poteri del parlamento e ne rendesse vana ogni aspirazione; a chi ha ritenuto di non dire nulla circa il progressivo abbandono delle periferie collaborando anzi alla perversa operazione di taglio alla spesa pubblica di ospedali e pensioni; a chi, di fronte alla modifica dell’art. 81 della Costituzione e alla introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione ha addirittura votato a favore; a chi dinanzi ad autonomia differenziata e gabbie salariali non batte ciglio, anzi.
Sì: la sinistra ha davvero smarrito la strada perché, in definitiva, ha perso l’anima ed è diventata, appunto, una semplice cosa. Che non è né carne né pesce perché è una entità senza identità, una brodaglia tiepida da somministrare indifferentemente d’estate e d’inverno perché l’oste dice che quello passa il governo e che quella minestra sciapa è comunque meglio dell’olio di ricino (e hai voglia a implorarlo di dire qualcosa di sinistra). Con il risultato che quando poi qualcuno dice che non c’è più differenza tra i due schieramenti politici non lo si può biasimare. E se negli ultimissimi anni una differenza c’è, tutto questo non è dovuto a una sinistra ferma, inerte, indolente, apatica, bensì a una destra che si sta progressivamente radicalizzando, che è riuscita finanche a sdoganare lo spauracchio del fascismo, cosa impensabile quando la sinistra era forza di lotta e di governo, cioè quando aveva l’autorevolezza per ricordare a tutti che il fascismo è un reato in base alla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione; che l’antifascismo è un valore costituzionale e non una semplice corrente di pensiero, perché la Costituzione è antifascista, non in quanto contraria a qualcosa o qualcuno, bensì perché rivendica esattamente tutte le libertà, diritti e conquiste che il fascismo aveva cancellato e che continua ad avversare essendo esso un metodo e non una ideologia nella accezione classica del termine. Ma per una classe dirigente amorfa, anche l’antifascismo poteva essere riposto nell’armadio con un po’ di naftalina: chi può dimenticare il tentativo di una destrutturazione valoriale della Resistenza in nome di una vuota e melliflua pacificazione nazionale?
Aveva ragione il povero don Abbondio quando affermava, dopo il colloquio con il cardinale Federigo, ‘Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare’: proprio quella parola, “ultimi”, comporta infatti una buona dose di coraggio poiché obbliga a compiere una decisa scelta di campo, rende impossibile rimanere neutrali. Come insegna il compianto Luciano Gallino le due vittime principali della restaurazione ordoliberista e turbocapitalista sono state l’uguaglianza e il pensiero critico. Quest’ultimo è stato scientemente destrutturato fino a quando non si è riusciti a rendere incapace di reazione una intera area di opinione che faceva riferimento ai c.d intellettuali di sinistra o progressisti. L’intellighenzia di sinistra è stata così cannoneggiata dai potenti mainstream delle forze neoliberiste e ridotta alla resa in breve tempo. Un esempio? Quando si discute di risorse, quando si chiedono soldi per la crisi determinata dal Covid, arriva subito il sorrisino ebete dell’economista presunto progressista di turno che alza il dito e chiede: E dove sono le risorse con la situazione di debito che abbiamo e con tutta la povertà che c’è in giro?
In realtà, le risorse ci sono. Eccome. Poiché, altrimenti, non si spiegherebbe come mai negli ultimi 30 anni e, in particolare a partire dalla Grande Recessione del 2008, la forbice tra ricchi e poveri si sia divaricata, il numero dei più ricchi si sia ridotto con un aumento contestuale dei loro patrimoni e il numero delle persone più povere si sia invece incrementato con una diminuzione delle risorse a loro disposizione; e come mai, infine, la classe media continui, costantemente e progressivamente, a perdere pezzi. Tra l’altro, è normale che la ricchezza di un Paese aumenti con il passare del tempo salvo che non vi siano fattori patologici a deviare il corso degli eventi: in un tempo relativamente breve aumentano le conoscenze, le tecnologie e i saperi; l’uomo si evolve, scopre nuove tecniche, ad esempio come incrementare i raccolti, rinviene nuove fonti energetiche per preservare il pianeta e ridurre conseguentemente le spese collegate ai danni prodotti dall’inquinamento. In effetti il PIL mondiale aumenta ogni anno. Perché il problema è piuttosto quello della concentrazione dei beni e della distribuzione delle ricchezze; quello della disponibilità e della accessibilità delle risorse; quello della utilizzazione dei capitali, della loro allocazione, della selezione dei destinatari.
Su tutto ciò la sinistra occidentale non dice nulla da trent’anni: si limita piuttosto a subire l’imposizione di modelli ingiusti di distribuzione del reddito estranei alla propria impostazione teorica, perdendo progressivamente la propria capacità reattiva. E questo avviene perché si è deciso di sacrificare tutto sull’altare del dio denaro elevando a dogma assoluto il modello di sviluppo capitalista e il sistema di produzione e distribuzione dei beni e di accesso ai servizi da questo imposto. Non è un caso, a proposito di linguaggio, che la c.d. sinistra abbia adottato un idioma, un gergo, ritenuto semplicemente ostile fino a pochi anni perché deputato a demolire tutto ciò che fosse pubblico, che appartenesse allo stato, alla collettività, alla comunità. Privatizzazione dei servizi pubblici, razionalizzazione della spesa pubblica, flessibilità del rapporto di lavoro, libertà del datore di lavoro nella gestione dell’azienda. Erano e sono le parole dell’ipocrisia, usate per non pronunciare i termini che invece evidenziano con chiarezza lo stato reale delle cose: accaparramento, riduzione, precarizzazione, licenziamenti. E ci voleva un papa a sollevare il problema, provocando l’ira di una parte consistente dei poteri che dominano il mondo e che sfruttano i popoli.
La sinistra non è sinistra se non abbandona quel linguaggio e non denuncia con determinazione che questo perverso modello di sviluppo è fallito e non va riformato, va sostituito. Non è sinistra se non coltiva almeno l’idea di costruire un modello alternativo. Non è sinistra se parla di transizione ecologica e non di conversione ecologica; di riformismo e non di alternativa; di condizioni che determinano disagio sociale e non di situazioni di ingiustizia sociale. Non è sinistra se non parla delle cause di impoverimento degli stati, delle cause di sfruttamento dei popoli.
Sì, le parole sono importanti e la sinistra le ha perse per strada perché ha smarrito proprio la strada. E tuttavia adesso è giunta l’ora di liberarsi dal pesante fardello che ha schiacciato il pensiero progressista e socialista occidentale. Perché adesso? Perché siamo alla vigilia della più grande trasformazione sociale ed economica del mondo dal secondo dopoguerra ad oggi: il virus ha messo a nudo i difetti di un mondo costruito sulla finanza e sull’economia che si è trovato impreparato dopo aver smantellato ospedali, medici, infermieri, dopo aver ridotto la spesa pubblica per ricerca scientifica e medica. Il nostro mondo è un mondo nudo di fronte alle grandi difficoltà, incapace di difendere le persone. E poi da questa crisi emerge potenzialmente un nuovo senso di comunità perché è evidente che per battere il virus e la povertà che ne è conseguita servono coordinamento, cooperazione e solidarietà globale: ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come mai accaduto prima. Questa crisi ha messo in luce le differenze sociali enormi che non possono essere più accettate; ha evidenziato un sacrificio dell’idea di pubblico e di collettività che ha determinato danni sulla comunità e su ciascun individuo; ha lasciato sole le persone perché sino a questo momento hanno cercato di convincerci su quanto sia giusto dare centralità a individualismo, competitività, produttività.
In realtà, gli “ultimi” sono il centro della politica, non un aspetto, non un dettaglio, non un tema di essa. Prendiamo ad esempio le persone migranti. Nei contesti sociali occidentali sono fisiologicamente gli ultimi, come se ciò fosse quasi ordinario: anzi, sono gli ultimi degli ultimi, i deboli dei deboli, gli oppressi degli oppressi. Anche nelle realtà cosmopolite (New York, Londra, Parigi) il rischio di esclusione e di emarginazione tocca con maggiore frequenza i migranti: livello degli stipendi, qualità dei posti di lavoro, scarsità di incarichi di prestigio, posizione sociale, necessità di accesso ai servizi sociali, propensione alla devianza, sono elementi fortemente indicativi della condizione di generale marginalità di chi non è autoctono. Orbene, il grado di attenzione che una società riesce a prestare a queste persone, costrette ad una posizione di oggettivo svantaggio, è emblematico della sensibilità che la stessa comunità riserva a tutte le situazioni di esposizione, fragilità e sofferenza. Non si può avere sensibilità per l’italiano povero e non per il mendicante straniero; non si può provare compassione per il disabile del proprio condominio e non per quello che abita in periferia; non si può intervenire in favore della famiglia disagiata di colore bianco e chiudere le porte in faccia a quella di altro colore. Non si può perché la cura dei deboli funziona esattamente come la cura dei malati (trattandosi appunto di cura): come un medico – in conformità al giuramento di Ippocrate – non può fare distinzione tra malato e malato, così una società non può discriminare al suo interno elaborando un concetto di maggiore o minore diritto, di maggiore o minore prossimità. E non si può perché tale ragionamento tenderebbe inevitabilmente a ridurre in modo progressivo la platea degli aventi diritto alle prestazioni sociali. Siccome le risorse economiche sono limitate, si metterebbe in moto un meccanismo di costante riduzione di chi è considerato meritevole di intervento fino al momento in cui, radicalizzando il ragionamento, ciascuno di noi potrebbe rimanerne vittima. E sì. Perché il concetto di “ultimo” non è un concetto fisso, stabile, statico ma è fluido, mobile, dinamico: “ultimo” non è solo il migrante arrivato con il barcone, ma è anche il quadro licenziato dalla grande multinazionale che delocalizza all’estero la manodopera; oppure il capofamiglia che si trova all’improvviso senza lavoro, senza casa, senza contesto di riferimento; o il commesso della boutique del centro che chiude a causa degli effetti del lockdown; o la famiglia monoreddito che stenta ad arrivare alla quarta settimana del mese. “Ultimo” può diventare ciascuno di noi. “Ultimo” è chi si trova improvvisamente in uno stato di bisogno che nella sua mente aveva scartato totalmente come ipotesi.
Ecco perché l’argomento “Ultimo, ultimi” dovrebbe costituire la preoccupazione principale di ogni sforzo politico, il cuore di ogni politica di sinistra, diretta a salvaguardare prima di tutto le condizioni difficili delle persone che versano in uno stato di maggiore difficoltà per poi, gradualmente, interessarsi degli altri.
I care, ho a cuore, mi interesso dell’altro, certo. Come diceva don Milani, però; non come una certa sinistra che, mentre cavalcava comizi e convention con questo detto, stringeva alleanze con i più forti, con quelli cioè che costituiscono ancora oggi la causa principale di quel processo di impoverimento e di quella operazione di disuguaglianza che attanagliano la nostra società e che stanno, progressivamente, cancellando la classe media.
Allora, la sinistra riparte dagli “ultimi”. “Ultimi”: questa parola che deve catturare la sua attenzione, che non deve permettere distrazioni, ben numerose in questi ultimi trent’anni in cui, non a caso, il consenso ai partiti occidentali di sinistra si è spostato dalle periferie sempre più sporche ai centri urbani sempre più eleganti: dai poveri ai ricchi, dagli oppressi agli oppressori. Ed è così che ha preso forma la sinistra dei talk show, dei salotti, delle nicchie, delle elite, spogliata della sua anima, incapace di rimboccarsi le maniche e di sporcarsele. Quella sinistra condannata a cercare di recuperare terreno sul piano dei diritti individuali (dimenticando che nelle democrazie liberali, questi sono un patrimonio di tutti: in GB è stato Cameron a promuovere e approvare la legge sulle unioni gay). Archiviando così la centralità dei diritti sociali che esprimono una condizione del tutto e dei tutti, che non appartengono al singolo ma che si identificano nella collettività. Perché, se è vero che l’uguaglianza senza libertà può diventare autoritarismo è anche vero che i diritti senza uguaglianza diventano privilegio: consentito a chi se lo può permettere perché ha già messo a posto tutto il resto. A fare parte uguali tra diseguali si commettono le peggiori ingiustizie (sempre don Lorenzo Milani) perché l’uguaglianza è giuridicamente concreta solo quando essa costituisce salvaguardia della libertà diseguale. Altrimenti è formalismo giuridico, propenso e funzionale a mantenere le distinzioni e i privilegi presenti nella società civile. Come accade con il famoso brocardo in base a cui La legge è uguale per tutti: che non è vero perché il diritto è più eguale per chi ha la possibilità di pagarsi gli avvocati migliori e di sfruttare così i meccanismi e le procedure in modo a sé favorevole. Il formalismo giuridico garantisce le libertà solo in modo astratto ed è questo il vortice da cui si è fatta inghiottire la sinistra occidentale tra la fine del XX secolo e l’inizio di questo. Il dibattito si è così concentrato sui diritti civili poiché essa non aveva più niente da dire su quelli sociali, finiti nelle fauci di un neoliberismo vorace e predatorio, inghiottiti dal totem dell’efficientismo a ogni costo, da quell’idea economicista e monetarista della società in base alla quale le persone vengono dopo, essendo merce. Una specie di sorpasso a destra del liberismo classico, se così si può dire. Non più e non solo il lavoratore come merce ma la mercificazione della persona, la conversione in chiave economica dell’essere umano che ha diritto alla vita in quanto in grado di produrre. Vacca da mungere fino alla pensione: e dunque innalzamenti continui dell’età pensionistica e riduzioni costanti del trattamento economico spettante; così, tagli di spese alla sanità lasciando maggiormente in difficoltà chi la visita o l’esame privato in poco tempo non se lo può permettere e deve aspettare i tempi di una sanità pubblica martoriata dalle misure di contenimento (fiscal compact e crimini del genere).
Si chiama cultura dello scarto e si pratica mediante l’eugenetica: cioè la selezione dei più deboli. Tremendamente coerente con la dottrina neoliberista e sciaguratamente attuale nella gestione del Covid da parte dell’occidente (e non solo): la morte di poche persone (in numero assoluto), specialmente trattandosi degli anziani e dei più deboli, è stata ritenuta un sacrificio accettabile perché nel frattempo l’economia doveva girare. Quando il numero delle vittime è aumentato e, inevitabilmente, si è scoperto che non sono solo le persone più anziane ad avere problemi, è ripartita una politica delle chiusure più rigide ma solo perché il fenomeno rischia comunque di provocare dei danni a livello economico.
Ebbene, per la sinistra è giunto il tempo di andare alla ricerca, di recuperare le parole perdute, di prendersene finalmente cura per farle crescere di nuovo: “ultimi”, “oppressi”, “sfruttati”; e poi “fragili”, “vulnerabili”, “soli”; e ancora “deboli”, “esposti”, “sensibili”. Dare nuova linfa a queste parole significa scegliere da che parte stare, preferire una parte del campo, evitare di rimanere al centro, evitare di farsi consumare da uno sterile riformismo che ha prodotto vuoti apparati partitici e vanagloriosi comitati elettorali, rinunciando alle proprie idee sepolte da una terminologia vuota e inconsistente: stakeholder, management, governance, spending review, accountability. Espressioni funzionali alla menzogna, all’inganno, utilizzate per raggirare quella gente, quelle comunità, quella grande parte di popolo che aveva a lungo coltivato il sogno della sinistra: e cioè la speranza in un futuro di emancipazione e di liberazione. Quando Tarantelli affermava che L’utopia dei deboli è la paura dei forti, lui che era riformatore e non riformista, si riferiva proprio a questo: al coraggio delle parole che la sinistra ha perso.
Parte proprio dalle parole la riscossa della sinistra sulla quale grava una grande responsabilità, derivante dal fatto che la destra liberale, libertaria e democratica non esiste quasi più: Churchill, Khol, Chirac, La Malfa, Rothard non ci sono più. Esiste un’altra destra, strettamente legata al ventennio e agli anni bui della Repubblica. Si tratta cioè di affrontare la sfida decisiva perché lo scontro finale è arrivato alle sue estreme conseguenze e perché così ha voluto la storia: scontro che si definirà o in una condizione di emancipazione più o meno permanente e stabile delle classi subalterne, come sembrava stesse accadendo nell’Europa degli anni ’60/70 dello scorso secolo, o nel nuovo asservimento, nella nuova schiavitù.
Adesso è il tempo: la sinistra deve ritrovare le parole giuste per fare pace con la propria coscienza, che poi significa fare pace con la propria gente, quella che tradita dai propri punti di riferimento a casa propria si è buttata tra le braccia dell’ammiccante avversario. Come è successo a Mirafiori, nelle periferie delle grandi città, nelle campagne del tavoliere pugliese, nelle miniere del Sulcis, in parte di quella roccaforte rossa che dal Delta del Po’ all’Argentario, passando per gli Appennini, taglia in due lo Stivale. Bisogna fare pace proprio con loro: con gli “ultimi”.
E non c’è più tempo, non si può prendere ancora tempo, non si più perdere tempo. Perché ne è stato già sprecato tanto: abbiamo buttato al vento in questi anni intelligenze e risorse, abbiamo sprecato idee, abbiamo disperso energie e giovani. E ci siamo ingrigiti, appiattiti, omologati. Imbastarditi. Sostanzialmente siamo stati proni. E abbiamo ricusato le visioni e le utopie, abbiamo abdicato a ogni spinta verticale, abbiamo rinunciato alle parole su cui un sogno, quel sogno, era stato faticosamente costruito. Ma ora non c’è più tempo.
Gli “ultimi” non possono più aspettare.
Maurizio Moscara